di
Alessandra Limetti
Uno degli aspetti che, da milanese, mi piace di più
della realtà altoatesina è proprio il tanto discusso bilinguismo. Ho
sempre amato le lingue, le ho sempre studiate, probabilmente perché da sempre mi piace chiacchierare e non accetto che una barriera
così piccola si intrometta a prevenire possibili relazioni. Tuttavia mi
sono trasferita da Milano a Renon senza conoscere proprio il tedesco, ed
ho cercato di recuperare questa mia lacuna appena mi è stato possibile,
grazie anche all'aiuto prezioso dei madrelingua locali che hanno
ascoltato con pazienza i miei bizzarri tentativi di comunicazione,
spesso più simili ad un gramelot disarticolato che ad un qualunque
linguaggio intelligibile. Vivendo in un paese a maggioranza tedesca, i
miei figli si sono ritrovati, per comodità logistica, a frequentare la
tedesca scuola locale e quella che all'inizio era una necessità si è
rivelata una grande risorsa, accolta, nonostante le ovvie difficoltà
iniziali, con entusiasmo e coraggiosa partecipazione. Non credo che
questo significhi per loro perdere il contatto con l'idioma di
appartenenza; in famiglia cerchiamo di mantenere vivo il gusto per un
italiano corretto e ben espresso. Penso, invece, che l'immersione in una
realtà bilingue, proposta in modo fluido e senza attriti, li aiuti a
uscire dal piccolo bozzolo del "io, mio" e a considerare il mondo come
un qualcosa di vasto e multiforme, che si apre e si dispiega in tutta la
sua bellezza ben oltre i limitati confini del nostro piccolo
quotidiano. Qualche giorno fa mio figlio di sei anni, che in prima
elementare già saltella abbastanza allegramente da un idioma all'altro,
meditando sulla propria realtà di bambino italiano inserito in un
contesto sociale prevalentemente tedesco, se n'è uscito con questa
riflessione: “Mamma, se però venisse un signore da un altro mondo non
saprebbe se noi siamo italiani o tedeschi, ma penserebbe che noi siamo
tutti “terresi”. Non avendo avuto cuore di correggere “terresi” con
"terrestri", perché, data l'età, mi concedo ancora il lusso di
intenerirmi alle buffe espressioni dei miei piccoli; ho pensato comunque
fosse un gran bel pensiero, segno che tale “realtà” non è vissuta in
modo problematico ma, piuttosto, con curiosità e benevolenza. In
effetti, a casa ci piace discutere delle differenze linguistiche, delle
sfumature che distinguono una lingua da un'altra: la capacità della
sintesi inglese, la precisione anche emotiva della lingua tedesca,
l’eufonia poetica dell'italiano, la grazia del francese, la rotondità
dello spagnolo... Potremmo andare avanti col russo, l'arabo, l'albanese e
via dicendo, ma la mia competenza linguistica non arriva a tanto.
Spesso i bimbi mi chiedono di tradurre parole o piccole frasi in
un’altra lingua, o anche canzoni, e qui aggiungiamo considerazioni sulla
differente musicalità di ogni singolo idioma e anche, data la passione
musicale di tutti i miei pargoli, sull'universalità della musica in sé.
Esiste inoltre una vasta letteratura a suffragio di quanto il contatto
con lingue differenti dalla propria, già in tenera età, faciliti il
successivo apprendimento linguistico, come per una sorta di “allenamento
interiore” che forma la predisposizione. La mia bimba più piccola, che,
al secondo anno di asilo, qualche volta torna a casa ancora un po'
frustrata dal non comprendere bene le espressioni dei compagni, ha di
recente trovato da sola, dall'alto dei suoi quattro anni, la propria
illuminante intuizione: “Adesso imparo, così, quando andrò a scuola,
sarò anche un po' tedesca; da grande poi sarò anche inglese“. Dal mio
osservatorio materno, penso sia meravigliosa l'immagine di "essere" noi
stessi parte di una lingua diversa, come un’immersione, come una nuova
sfumatura interiore, per poterne assaporare in pieno lo spirito e
aprirsi così ad una multiculturalità autentica, fatta di pensieri e
parole e scambi tra persone, semplicemente persone, come un quadro i cui
colori si compenetrano con armonia, come i diversi passi di una danza
di volta in volta condivisa.
Alto Adige 17-12-12
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