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mercoledì 12 dicembre 2012

Ventisei anni dopo Il reattore di Chernobyl fa ancora paura

In costruzione in Ucraina un sarcofago di cemento armato da 20 mila tonnellate Il progetto è di un consorzio francese ma sarà pronto solo nel 2015 

Ufficialmente dal 2000 l’impianto è stato disattivato, in realtà squadre di operai lavorano lì 7 ore al giorno dandosi il cambio ogni tre settimane
 


A causa dei venti si calcola che quasi 70% della radioattività liberata a Chernobyl – pari a 200 volte quella della bomba di Hiroshima – contaminò circa un quarto dell’intero territorio della vicina Repubblica di Bielorussia con gravissime conseguenze. I danni maggiori li subì il sud del Paese, quello che confina con l’Ucraina, che è più prossimo alla centrale. Si rese necessario evacuare intere zone il che comportò l’insorgere di altri problemi di carattere sociale anche in conseguenza della situazione economica della piccola repubblica ex sovietica.
di Marco Marangoni wCHERNOBYL Il cuore del diavolo batte ancora. Quella ciminiera rossa e bianca ormai scrostata avvolta nella nebbia è sempre lì ad incutere timore al mondo intero. Chernobyl in lingua russa significa “stelo d’erba nero che cresce nella palude” perché era la regione che dal 1200 al 1500 serviva come nascondiglio dalle invasioni di mongoli e tatari. Dalla notte del 26 aprile 1986, quando esplose il reattore numero 4 conseguenza dello scellerato test presso il già obsoleto impianto nucleare, Chernobyl è una zona disabitata. Il nemico è invisibile, infido e letale. Sono le radiazioni disperse nell’atmosfera. Entrare nella zona rossa, quella dove il tasso di radiazione è cinquanta volte superiore al normale, è severamente proibito. Lo speciale permesso ci viene consentito solo dopo lungo iter burocratico. Il nostro viaggio nell’apocalisse inizia al secondo posto di controllo, quello avanzato di Lelyov alcuni chilometri dopo Chernobyl, la cittadina tristemente che cerca a fatica e lentamente di ripopolandosi. Stiamo entrando nella zona di esclusione, la zapretnaya o Zona, dove è vietato abitare. Si rende omaggio al monumento ai primi liquidatori poi si entra in un piccolo ‘magazìn’ (bottega) dove ci riforniamo di preziosa acqua naturale imbottigliata. La prima tappa è di forte impatto emotivo. Quei posti che quando entri lasci il cuore. È l’asilo del villaggio di Kopachi. Entriamo. Il susseguirsi di brividi si trasforma in breve tempo in commozione. Prima la stanza con le culle, poi quella dei lettini a castello, sul pavimento ci sono ancora le pantofoline dei bambini, i cartellini con le lettere dell’alfabeto cirillico, i libri, i quaderni. Poi s’accede nella stanza dei giochi, le bambole, le macchinine. Tutto è ancora intatto. Il velato strato di polvere conserva questi oggetti, piccoli cimeli che non devono essere spostati perché appartengono alla storia. Il viaggio continua nella nebbia. Al check point (il terzo) posto alle porte della città fantasma di Pripyat ci impartiscono le ultime importanti, fondamentali e dettagliate istruzioni. Non è un tour turistico, ma in gioco c’è la salvaguardia della propria salute. Il pulmino procede zigzagando tra le stradine interne dove gli alberi ed arbusti in 26 anni sono cresciuti bucando l’asfalto ma anche crescendo in mezzo alle case. Si prosegue a piedi cercando di non calpestare qualcosa che possa mandare alle stelle il contatore geiger. Prima l’ospedale, poi il bar ricavato in un’ansa del contaminato fiume Dnipro dove si vede un battello ormai semi-affondato. La “passeggiata” nella storia tocca altri siti di forte impatto fino a concludersi al luna park. La ruota panoramica, la giostra e gli autoscontri sono ancora lì, mangiati dalla ruggine ma intatti. Nessuno li ha mai utilizzati. Era tutto pronto per la sontuosa inaugurazione che sarebbe coincisa con la festa dei lavoratori del 1° maggio. Una cerimonia che non si svolse mai perché da quel giorno i circa 49mila abitanti erano stati ormai tutti evacuati. La ridente cittadina di Pripyat era stata fondata nel 1970 come città- dormitorio per i lavoratori (e loro famiglie) della centrale nucleare (a 3 chilometri). Significativa la scritta in corsivo cirillico sulla lavagna di una scuola: “Non ritorneremo. Addio, Pripyat, 28 aprile 1986”. L’atmosfera è allucinante. In quella che era la piazza principale, l’unico segno di “vita” di un’era, però, ormai passata. Sul pennone a sventolare la bandiera rossa con falce e martello. Si, perché Pripyat paradossalmente è l’ultima enclave dell’Unione Sovietica, una Nazione che non esiste più. Tutto è rimasto a quel giorno. In un vicino palazzo la scritta: “il partito di Lenin è la forza del popolo che porta al trionfo del comunismo”. Anche nell’atrio della casa della cultura simboli del regime, dall’urna ai dipinti di alcuni ex leader del Pcus. È ora di pranzo. Le esperienze si ampliano quando mangiamo nella mensa assieme ai lavoratori della centrale. Prima di entrare c’è il controllo delle radiazioni. Il locale è perfettamente pulito e il cibo “è garantito” perché cucinato fuori dalla zona di alienazione. «Non posso parlare, quello che facciamo è coperto da segreto. Posso dire che ogni due settimane smetto il mio turno e torno a casa. Poi ritorno, la mia vita è questa», dice Viktor, biondino di circa 40 anni il cui volto è segnato da anni di sofferenza. Il pulmino prima costeggia un canale poi un lungo muro. Il contatore geiger inizia a suonare sempre più forte, sempre con maggior frequenza fino a sembrare che debba scoppiare da un momento all’altro. Impazzisce e spara in pochi secondi numeri tra il 9 e il 2 (valori espressi in microsievert). S’intuisce che la famigerata centrale è ormai sempre più vicina. Eccola. Siamo a 100 metri dal vecchio e crepato sarcofago, il più brutto monumento della prima era nucleare che rischia di crollare su stesso da un momento all’altro. Scendiamo ci vengono consentiti massimo dieci minuti. Minuti inesorabili. Il pensiero spazia nei ricordi ma inevitabile è pensare: “quello che l’uomo ha fatto e che lo stesso ha distrutto in una manciata di secondi”. Nel 2000 era stato annunciato al mondo che i reattori erano stati spenti. Non è proprio così perché dodici anni dopo si lavora ancora. Si dice per la disattivazione dei reattori 1 e 3 ma sta di fatto che le squadre di operai lavorano per sette ore al giorno per un massimo di tre settimane, poi si danno il cambio. Difficile non guardare ciò che circonda la centrale. D’un tratto scorgiamo un gigantesco arco d’acciaio alto più di cento metri e lungo 150. Si tratta di una struttura che isolerà dall’ambiente circostante la bomba radioattiva di Chernobyl. A prodotto finito la struttura, realizzata dal consorzio francese Novarka, peserà più di ventimila tonnellate. La conclusione dei lavori è prevista entro la fine del 2015 ma intanto l’incubo resta.
Alto Adige 12-12-12

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