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sabato 28 gennaio 2012

Il nonno al nipote: «Ti racconto il lager»


ALAN CONTI

BOLZANO. Il lager raccontato da un libro di storia fa impressione, letto nel diario di un protagonista è una scossa all’animo, ma raccontato dalle parole di tuo nonno è un pugno nello stomaco che pretende un gesto di giustizia. Stefano Tonini, neo diplomato al liceo scientifico “Torricelli”, ha trovato un modo suo per rendere omaggio a nonno Giovanni: farne il protagonista della tesina di Maturità. Giovanni “Nino” Rubbo, infatti, tenne un diario durante la sua deportazione in un lager della Boemia dopo essere stato al fronte con migliaia di compagni militari italiani. Pagine che hanno trovato nuova vita in un’aula scolastica a 70 anni di distanza e che riecheggiano nella Giornata della Memori: un ponte del ricordo che collega le generazioni. “Nel mio lavoro - spiega Stefano Tonini - intreccio gli eventi storico-politici con le esperienze della quotidianità che hanno coinvolto, loro malgrado, migliaia di persone. La loro incidenza sugli avvenimenti è stata semplicemente il loro vivere in un preciso momento senza censurare nulla della loro umanità. Mio nonno Nino conobbe la brutalità degli aguzzini nazisti e la precarietà della vita nel lager, minacciata da fame e malattie, ma caratterizzata anche da episodi di vera e propria resistenza morale alla violenza dei capi. Per me è stata una lezione viva di storia e un’opportunità unica di immedesimazione”.
 A parlare, quindi, è la penna di Nino Rubbo che attraversa un’odissea cominciata nella caserma Bormida di Torino il 5 gennaio 1942 e terminata a Bolzano il 22 luglio 1945. “Scrivo seduto al tavolo nella stanza del capo e vedo che molte cose ho dimenticato, ma quello che è stato duro e aspro è rimasto nel più profondo del cuore”. L’inferno è nella regione carbonifera del Brüx/Most, 60 chilometri a nord di Praga, prigionieri di guerra in un campo di lavoro alle dipendenze bestiali della vicina fabbrica di benzina sintetica. “Viaggiammo in carri bestiame pigiati come sardine: 40-50 per vagone. Per fame, ad ogni stazione, vendiamo alla popolazione locale gli indumenti meno necessari in cambio di pane, galline e generi vari”. Poi l’arrivo a Brüx: campo 22, quello degli italiani, matricola Stalag IV C 10495. “Eravamo 3400 in 10 baracche - scrive Nino - e si lavora duro nello scaricare incessantemente carbone per una fabbrica dal nome sinistro: Aschenkippe. Le guardie perdono presto il senso di umanità ed io lavoro anche come interprete per un sergente. Oltre al lavoro fisico devo sforzarmi mentalmente nel ricordare parole ormai abbandonate”. Due i comandanti del campo: “Uno biondo, dal lato umano, partito volontario sul fronte russo forse per non farci da carceriere. Il secondo brutale, non esita con i suoi aguzzini a prenderci a bastonate”. Fame e malattie si diffondono e i primi bollettini recitano cifre impietose. “Dei 3400 che eravamo siamo rimasti in 920. Il campo 22 è evacuato per trasferirci al 27B, occupato dagli inglesi, che prima contava 65 morti e 500 affetti da tisi”. Il 21 luglio 1944 gli aerei sibilano nel cielo e piovono bombe. “Una esplode a 10 metri dal rifugio aprendo le assi e coprendoci di sassi e terra. Un’altra piomba davanti a me e lo spostamento d’aria mi sbatte per terra. Così corro verso il recinto abbattuto, lo scavalco scorticandomi mani e gambe e aiuto il sergente per cui lavoravo. In un secondo momento, in un rifugio crollato, troviamo 22 nostri compagni morti: gambe e teste, corpi maciullati”. Ma Nino sopravvive. L’8 maggio 1945 comincia il rientro a casa in scaglioni e, dopo la quarantena di prassi a Innsbruck, anche Giovanni torna nella sua Bolzano.
 «Scrivere in certi momenti - racconta oggi Rubbo - è essenziale per tenerti attaccato alla realtà, per vivere la propria identità, le proprie speranze e gli affetti, per sentirti ancora un uomo e non un animale braccato».
Alto Adige 28-1-12

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