Informazioni personali

Il presente sito non costituisce testata giornalistica, non ha, comunque, carattere periodico ed è aggiornato secondo la disponibilità e la reperibilità dei materiali ivi contenuti. Pertanto, non può essere considerato in alcun modo un prodotto editoriale ai sensi della L. n. 62 del 7.03.2001

mercoledì 27 giugno 2012

Il sogno di Langer: restituire la terra agli indiosXavante


















Le promesse non mantenute dell’Eni Oggi la vicenda potrebbe essere a una svolta 

Nel 1992, grazie al parlamentare altoatesino, la vicenda divenne uno scandalo internazionale, ma tutti i risultati raggiunti sulla carta non si realizzarono
Le autorità italiane si impegnarono ufficialmente a ridare ai nativi centinaia di migliaia di ettari di foresta che erano stati loro sottratti da Agip e Eni
La richiesta di Iara Ferraz, l’antropologa amica di Alex, è quella di far sì che l’Italia oggi si impegni in modo attivo per raggiungere gli obiettivi fissati allora  

di Riccardo Dello Sbarba *
Fu tra i sogni più belli di Alexander Langer: una grande azienda italiana (l’ENI) che, dopo averlo devastato, restituisce un enorme territorio dell’Amazzonia ai suoi proprietari originari, il mite e indifeso popolo degli Xavante, pagando così il proprio debito ecologico. Il politico sudtirolese riuscì a strappare questa solenne promessa nel 1992, al primo vertice di Rio sull’ambiente. Ma non è stata mantenuta. Così vent’anni dopo gli Xavante sono tornati a Rio a reclamare i propri diritti, anche nel nome di Alexander Langer.Ho deciso di partecipare al “Vertice della Terra” dal 19 al 22 giugno, denominato Rio +20 (ma ribattezzato “Rio meno 20” per i suoi deludenti risultati) anche per ripercorrere con gli Xavante questi 20 anni di lotta, d’inganni e di dolore. Per capire che cosa fare ancora per realizzare il sogno di Alex.Damião Paridzané, “cacique” (guida) del popolo Xavante, in quella terra d’Amazzonia è nato prima che la sua tribù fosse “contattata” dall’uomo bianco. Quando l’incontro, il vecchio capo ha alle spalle due giorni di viaggio dal Mato Grosso e pretende verità e giustizia. Circondato dai suoi, ha in testa la corona di lunghe penne del pappagallo “arara”, il corpo dipinto di rosso e di nero e in mano il pesante bastone del comando. Dalla loro terra indigena “Marãiwatsédé” gli Xavante furono espulsi nel 1966. L’esercito deportò gli indios a 400 chilometri di distanza con un ponte aereo. La loro terra diventò la gigantesca “fazenda Suia Missu” (750.000 ettari), passata all’italiana Agip petroli.Quella che era stata terra di foresta, di fiumi e di “cerrado”, la savana più biodiversa del mondo, fu incendiata per far posto a coltivazioni estensive di soja e allevamenti. Un crimine contro la natura e l’umanità che porta anche una marca italiana.Damião Paridzané non si è mai dato per vinto. Nel 1992 la “Campagna Nord Sud” lanciata da Alexander Langer fece del caso ENI-Xavante uno scandalo internazionale. Sotto quella pressione, il 10 giugno 1992 l’ENI e le autorità italiane s’impegnarono a restituire agli Xavante quel che era loro. Damião, di vent’anni più giovane, donò al presidente Raffaele Cagliari il bastone bianco della pace. E in Italia l’ENI si fece bella del gran gesto. Le premesse legali per la restituzione c’erano. Una commissione di antropologi e FUNAI (la fondazione governativa per gli indios) aveva identificato 165 mila ettari di “area indigena”. I vecchi piansero quando trovarono gli antichi cimiteri devastati e le ossa triturate dagli aratri. Secondo la Costituzione brasiliana la terra andava incamerata dallo Stato e poi data in uso perpetuo agli Xavante. Ma anche i nemici degli indios si erano organizzati: subito dopo l’annuncio dell’ENI, l’area Marãiwatsédé fu occupata illegalmente da latifondisti, piccoli contadini e disperati di ogni genere, con la complicità dei politici locali (direttamente partecipi all’invasione) e della dirigenza locale dell’”Agip do Brasil”, che fornì le carte topografiche e lasciò entrare gli invasori. Per rendere il territorio inabitabile per gli indios, la deforestazione riprese frenetica. Alte colonne di fumo tornarono a levarsi nel cielo dell’Amazzonia. Anche gli Xavante cominciarono ad accorrere nella terra che era stata riconosciuta come loro, ma furono chiusi in una porzione piccolissima di terreno e sottoposti a violenze quotidiane. L’ENI, persi i 165 mila ettari di terra indigena, se la squagliò svendendo ai latifondisti anche il resto della fazenda (600 mila ettari), nella speranza di far dimenticare le sue responsabilità nella devastazione della foresta e nell’occupazione illegale.Oggi gli Xavante resistono in condizioni impossibili. Un popolo che vive di caccia, pesca e frutti della foresta è ristretto in un terreno arido, con una sola pompa d’acqua che i fazenderos ripetutamente distruggono. Adulti e soprattutto bambini si ammalano per aver bevuto acqua prelevata da fiumi che gli occupanti illegali avvelenano a monte gettandovi cadaveri di animali. Pochi giorni fa un bambino è morto consumato dalla dissenteria.Ma Damião Paridzané e il suo popolo non mollano. Lo scorso 18 maggio 2012 il Tribunale Federale con sentenza definitiva ha dato alla FUNAI 30 giorni di tempo per far evacuare gli invasori bianchi dalla terra indigena Marãiwatsédé.Ma chi eseguirà la sentenza? Gli invasori sono centinaia, sono armati e decisi a restare nelle loro aziende illegali ma attive. Sono coinvolti nell’occupazione illegale i sindaci dell’area, i politici della regione e persino il responsabile locale della FUNAI (che dovrebbe eseguire la sentenza). Reclamano come “diritto acquisito” la loro usurpazione e accusano gli indios di essere un ostacolo al “progresso.Quella degli Xavante è una storia esemplare, non solo per il Brasile, ma anche per noi. “L’Italia deve fare pressione sul governo brasiliano perché la terra sia restituita” dice Iara Ferraz, l’antropologa amica di Alex Langer che fissò la demarcazione dell’area indigena. E, a restituzione avvenuta, bisognerà poi ripristinare l’habitat originario: un’opera immensa. Oggi gli Xavante resistono in condizioni impossibili. Un popolo che vive di caccia, pesca e frutti della foresta è ristretto in un terreno arido, con una sola pompa d’acqua che i fazenderos ripetutamente distruggono. Adulti e soprattutto bambini si ammalano per aver bevuto acqua prelevata da fiumi che gli occupanti illegali avvelenano a monte gettandovi cadaveri di animali. Pochi giorni fa un bambino è morto consumato dalla dissenteria.Ma Damião Paridzané e il suo popolo non mollano. Lo scorso 18 maggio 2012 il Tribunale Federale con sentenza definitiva ha dato alla FUNAI 30 giorni di tempo per far evacuare gli invasori bianchi dalla terra indigena Marãiwatsédé.Ma chi eseguirà la sentenza? Gli invasori sono centinaia, sono armati e decisi a restare nelle loro aziende illegali ma attive. Sono coinvolti nell’occupazione illegale i sindaci dell’area, i politici della regione e persino il responsabile locale della FUNAI (che dovrebbe eseguire la sentenza). Reclamano come “diritto acquisito” la loro usurpazione e accusano gli indios di essere un ostacolo al “progresso”.Quella degli Xavante è una storia esemplare, non solo per il Brasile, ma anche per noi. “L’Italia deve fare pressione sul governo brasiliano perché la terra sia restituita” dice Iara Ferraz, l’antropologa amica di Alex Langer che fissò la demarcazione dell’area indigena. E, a restituzione avvenuta, bisognerà poi ripristinare l’habitat originario: un’opera immensa. “L’ENI – accusa Iara Ferraz – non può tirarsi fuori dalla responsabilità di aver devastato la foresta e consentito l’invasione”. * consigliere provinciale dei Verdi
Alto Adige 27-6-12

Nessun commento:

Posta un commento