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martedì 24 aprile 2012

L’esodo dei sopravvissuti attraverso l’Alto Adige




Gli ebrei transitarono a migliaia soprattutto da Passo Resia e dalla Val Aurina L’obiettivo era quello di raggiungere le coste italiane e di salpare per Israele

di CINZIA VILLANI
Al termine della seconda guerra mondiale, un conflitto lacerante che aveva causato un immane numero di vittime e immense distruzioni materiali, l’Europa era un continente in movimento. Milioni erano le persone sradicate, fuggite, espulse, deportate ed evacuate dalla propria terra, centinaia di migliaia gli uomini e le donne coinvolti in scambi di popolazione e migrazioni forzate. Si trattò di fenomeni complessi e articolati, ognuno con una storia a sé. Fra questi anche l’abbandono da parte di migliaia di giuliano-dalmati delle terre dell’Istria e della Dalmazia ove da secoli la componente nazionale italiana era presente, in un “lungo esodo” che apportò modifiche brusche e radicali all’assetto etnico e sociale dell’area alto-adriatica. Furono processi che condussero a quella che è stata definita una “semplificazione” della mappa etnica del continente e all’affermarsi nell’Europa centro-orientale di stati assai più omogenei da un punto di vista nazionale, culturale, religioso e linguistico.
SCAMPATI ALLA SHOAH Fra i milioni di persone in movimento vi erano anche 250-300.000 ebrei provenienti in massima parte dalla Polonia, ma anche da Romania, Ungheria e Slovacchia. Si trattava di sopravvissuti ai lager del Reich e di ebrei che dalla Shoah erano riusciti a salvarsi in diversi modi; molti di essi avevano trascorso lunghi periodi in Asia Centrale, in condizioni sovente terribili. Decisi ad abbandonare i territori d’origine, soprattutto a causa dell’antisemitismo niente affatto scomparso, essi cominciarono a spostarsi verso Ovest nella speranza di potersi rifare una vita altrove: in Palestina, ma anche negli Stati Uniti. I documenti alleati li indicano solitamente con l’espressione, di non semplice traduzione, di “jewish displaced persons”, ma essi preferivano solitamente definire se stessi con il termine d’origine biblica di “she’erith hapletah”, ovvero “il resto”, i sopravvissuti al massacro. Furono circa 50.000 gli uomini, le donne e i bambini che per periodi più o meno lunghi soggiornarono in Italia, ove erano arrivati attirati in prevalenza dalla speranza di potersi prima o poi imbarcare per la Palestina, all’epoca sotto mandato britannico. E in effetti furono oltre 30 le imbarcazioni che fra la fine del conflitto e l’establishment dello stato d’Israele, nel maggio 1948, salparono clandestinamente dalla penisola con a bordo migliaia di ebrei.
TRA IL 1945 E IL 1948 La maggior parte di essi arrivò in Italia fra il 1945 e il 1948 attraversando, perlopiù illegalmente, i confini italo-austriaci dell’Alto Adige. Di rado si soffermavano in provincia e, se lo fecero, fu quasi sempre per brevi periodi; di solito la oltrepassavano velocemente per raggiungere le numerose strutture d’accoglienza sorte in varie zone della penisola. Arrivavano in una terra di confine che già dal 1939 era divenuta quasi totalmente “judenrein”: autorità germaniche e italiane, in accordo fra loro, avevano deciso nel luglio di quell’anno che la maggior parte della popolazione ebraica presente in Alto Adige dovesse nell’arco di pochissime ore emigrare altrove.
GLI EBREI IN ALTO ADIGE Quella che era stata per decenni una fiorente, vivace e cosmopolita comunità aveva visto così diminuire drasticamente e in brevissimo tempo il numero dei suoi componenti: se nel 1938 erano stati rilevati nella sola Merano oltre 900 ebrei, tre anni dopo ne erano rimasti solo poco più di un centinaio in tutta la provincia. E poi, a partire dal settembre 1943, gli arresti di 42 uomini e donne, molti dei quali anziani e malati che non erano riusciti o non avevano potuto nascondersi; quindi la detenzione, la deportazione e quasi sempre la morte. Fra questi, Olimpia Carpi, di soli tre anni, arrestata a Bolzano con i familiari e Wilhelm Loew, seviziato nel lager di via Resia e morto a 71 anni quasi certamente sul treno della deportazione. Dopo la Liberazione furono pochissimi - solo alcune decine - gli ebrei scampati allo sterminio che fecero ritorno in provincia. C’era la Comunità da ricostruire, il tempio e il cimitero da ripristinare. Occorreva far rinascere la vita religiosa, cercare di riavere i molti beni depredati e saccheggiati, aiutare i sopravvissuti, individuare i responsabili degli arresti e delle spoliazioni, tentare di capire cosa era successo a chi era stato portato via e non tornava. Bisognava cercare di ritornare alla vita. “Quanto di noi stessi era stato perso, spento?” si chiedeva Primo Levi durante il suo viaggio di ritorno. “Dove avremmo attinto la forza per riprendere a vivere?”.
ATTRAVERSO I VALICHI Le “displaced persons” ebree arrivarono in Alto Adige attraversando differenti valichi di confine. I passaggi più noti sono certo quelli avvenuti nell’estate del 1947 attraverso il Krimmler Tauern, il Passo dei Tauri in Valle Aurina: migliaia di uomini, donne e bambini, a volte anche molto piccoli, percorsero a piedi, di notte, questo impervio sentiero di montagna posto all’estremo lembo settentrionale della provincia. Una via usata per secoli da mandrie e greggi per la transumanza, bracconieri e contrabbandieri, pellegrini e fuggiaschi, che divenne in quei pochissimi mesi il percorso privilegiato alla volta dell’Italia. Ma anche altre vie d’ingresso vennero adoperate. Fino alla fine del 1945 fu utilizzato il Passo del Brennero, in transiti favoriti non poco dal consistente flusso di persone in movimento, principalmente soldati che facevano ritorno a casa. Uno stratagemma ampiamente impiegato fu proprio quello di spacciare gli ebrei per italiani che rientravano in patria e farli viaggiare, con documenti falsi, su quei medesimi convogli. Ma in assoluto fu Passo Resia la via più a lungo utilizzata.
I DOCUMENTI STORICI Qualcosa è rimasto di questi transiti: i documenti storici, alcune vecchie foto, qualche ricordo, ma non molto altro. Chi si reca nel cimitero ebraico di Merano vedrà, in una posizione centrale, una grande pietra tombale: è dedicata a Boris Jochvedson, morto nel 1948 non ancora cinquantenne. Pianista di talento d’origine russa, era arrivato in Italia già nel 1942 come accompagnatore di un gruppo di giovani ebrei provenienti da vari paesi che visse per oltre un anno, prima di rifugiarsi in Svizzera, in un’antica villa nobiliare a Nonantola, in provincia di Modena. Nel dopoguerra egli operò nella città altoatesina come collaboratore della “brichah”, l’organizzazione clandestina che pianificò e diresse l’esodo di migliaia di ebrei attraverso l’Europa sino ai porti del Mediterraneo. E la lapide che ne perpetua il ricordo, con la stella di David e le iscrizioni in ebraico e in italiano, è un ulteriore rimando a quanto ricca e articolata sia la storia della presenza ebraica in Sudtirolo.
Alto Adige 24-4-12

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